Dio disse ad Abramo: “Non sembri male ai tuoi occhi questo”.
Poi disse ad Agar, la sua schiava: “Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova”.
E’ una citazione dal libro della Genesi, dove si narra che Abramo è costretto ad allontanare il suo primogenito, avuto dalla sua schiava Agar, la quale, rifugiatasi nel deserto, rimane senz’acqua ed è costretta ad assistere alla morte del figlio.
Quale scelta peggiore per un padre, dover cacciare di casa il proprio figlio; e quale dolore per una madre veder morire il proprio figlio…
E invece Dio chiede ad Abramo di avere una visione differente di quanto sta accadendo: sembra male, ma non lo è! Così pure ad Agar viene assicurato che Dio ode il grido dell’uomo proprio là dove ognuno si trova.
C’è dunque una presenza, una visita, un’attenzione, un… passaggio del Signore (Pasqua!) precisamente in quei frangenti o in quelle situazioni che invece parrebbero esprimere la sua lontananza, la sua assenza, il suo silenzio.
Diceva il Card. Thuan: “Non mi piace la croce, ma la presenza in essa del mio Dio”. Proprio come nel racconto del cieco-nato o della risurrezione di Lazzaro, nei quali viene ripetuto da Gesù che queste circostanze della vita, persino quella definitivamente irreparabile della morte, sono per la gloria di Dio, per la manifestazione delle sue opere. Come a dire che Dio non si sottrae a nulla, non è estraneo a niente e a nessuno, non è al di fuori o al di là (perché, non dimentichiamolo, si è incarnato e lo è per sempre!), ma parla, agisce, è all’opera, scuote, consola, converte, chiama, grida in ogni circostanza, in ogni fatto, in ogni sconfitta come in ogni successo, nella depressione come nell’estasi, nel dolore come nella serenità.
Dicevano i Giudei: “Quest’uomo compie molti segni: che facciamo? E’ meglio che muoia” (Gv 11, 47-50).
Quanti segni in queste ultime settimane: la paura, l’ombra della morte, la rabbia e il nervosismo, la famiglia con cui stare, la solitudine da affrontare, la distanza, l’assenza di chi ci è caro, la penuria di molto, la monotonia dei giorni, i ricordi di cosa o di chi veniva dato per scontato, il silenzio assordante, le notizie convulse, un grido a squarciagola, un canto al balcone, i cani a passeggio e i bimbi chiusi in casa, le chiese aperte e il cuore vuoto. E Dio che tace! Molti segni, persino scandalosi, come i morenti in solitudine e i defunti senza gesti di commiato…
Cos’altro dovrebbe accadere ancora? Abbiamo tutti, anche chi non crede, cercato un senso per tutto questo?
Ripetere che tutto andrà bene non può e non deve significare che semplicemente tutto prima o poi passerà; e neppure che si torni alla vita di sempre. Non può e non deve essere così perché allora non è andato per nulla tutto bene; non avremmo imparato niente; non avremmo compreso affatto cosa sia realmente la vita.
Perché non si può sopravvivere in attesa che tutto passi e che nulla ci sfiori; non si può tirare avanti così come capita, che tanto non si può fare altrimenti; non si può continuare a campare ritenendo fondamentale recarsi in edicola o dal fruttivendolo che non invece trovare un motivo valido per arrivare a sera, per ricominciare ogni giorno e per anche morire!
Cosa abbiamo insegnato ai giovani, ai nostri figli in queste settimane? Abbiamo provato a spiegare loro il valore e il significato degli affetti, della rinuncia e del sacrificio, della generosità e dell’attenzione agli altri? Li abbiamo aiutati ad aprire gli occhi su un mondo dominato dagli interessi, dall’indifferenza, dal potere, dall’egoismo che non pagano, ma che sono invece la nostra distruzione? Abbiamo con loro tentato almeno di alzare i nostri occhi al di là di tutto ciò per cercare un Nome, un Volto, una Speranza, una nuova Via, una Verità altra?
Quale sapienza abbiamo acquisito noi adulti e soprattutto chi tra noi è più anziano? Quale saggezza abbiamo custodito e trasmesso? Basta che c’è la salute o ci vuole dell’altro? Basta che me la cavo o che impari ad essere grato? Basta andare a comprare il pane o ci vuole di più per nutrire la mia esistenza? E quali sono poi i beni davvero primari ed essenziali? Ci sono state tolte anche le cose di Dio: ma ne abbiamo realmente sentito la mancanza, il bisogno, l’urgenza, la necessità? Ci siamo preoccupati ansiosamente di spostare nozze o prime comunioni, ma ne abbiamo riscoperto il significato e il valore?
Altrimenti, ripeto, non sarà andato tutto bene, per nulla! Ma semplicemente ci ritroveremo a fare e ad essere quelli di sempre.
“Compie molti segni. E’ meglio che muoia”: meglio dimenticare tutto e lasciare alle spalle il ricordo di un brutto momento di questo fatidico anno 20-20! Ma se così fosse che dovrebbe ancora accadere perché impariamo qualcosa?
Già nel secolo scorso sono avvenute non una, ma addirittura due guerre a livello mondiale: e abbiamo già dimenticato tutto di allora…; che resterà dunque di questo momento storico?
È Pasqua, direte; ci vuole una parola di consolazione. Certamente, ma la speranza non è un’illusione a basso costo, soprattutto la speranza che nasce dalla Pasqua.
L’apostolo Paolo dice che la speranza deriva dal fatto che l’amore di Cristo (quello della Croce, quello cioè del dono di sé, del servizio vicendevole, del perdono senza condizioni, della fiducia nell’altro…) è stato riversato in noi, proprio perché Gesù nella sua Pasqua queste cose le ha vissute e ce le ha dimostrate vere.
Come a dire che quindi in noi c’è già la possibilità di fare e di essere differenti. La speranza cristiana esprime la tensione verso questa differenza (la differenza cristiana, appunto); dovrebbe esprimere il desiderio continuo di aiutarci, volerci bene, essere comunità, perdonarci, sopportarci, esagerare nel bene; ma anche essere saggi, maturare, continuare a crescere, convertirci di continuo, diventare bravi, relativizzare ciò che non è importante, mettere a fuoco l’essenziale…
In queste settimane dovremmo tutti, dal più giovane al più anziano, aver sperimentato la nostra strutturale fragilità che non significa che l’uomo viene sminuito o frustrato da un dio tiranno o castigatore. Invece la nostra fragilità dice da chi dipendiamo, da chi discendiamo, da dove riceviamo la vita e il futuro; e nel contempo ci rimette al giusto posto davanti agli altri e davanti a tutto ciò che ci circonda. Che se basta un micro-organismo invisibile a piegarci e a fermare il mondo, chi siamo allora noi realmente e quale il nostro posto e da chi dipende la nostra esistenza e perché?
Da questa fragilità sperimentata e così compresa dovrebbe sorgere spontanea l’invocazione di una via nuova, di un modello alternativo di umanità, di una meta vera e di una vita autentica.
Ecco in cosa consiste la preghiera cristiana: nella trasformazione di me stesso e della mia interpretazione del mondo nell’immagine di Colui che sto invocando come salvezza (cioè come risposta) della vita; i suoi occhi nei miei, il mio cuore nel suo, le sue scelte nelle mie, riconducendo ogni aspetto dell’esistenza a quel primato su cui va misurato tutto il resto, così da riavere tutte le realtà (vita, dolore, gioie, lavoro, economia, politica…) purificate dalle prepotenze, convertite in bene vero, affinate nei tratti e nei contenuti, rese umili nelle esigenze e nel dono reciproco.
Non basta quindi affermare che “Insieme ce la faremo”, perché è sempre troppo rischioso fidarci di noi stessi. Piuttosto occorre aggiungere con coraggio finalmente, soprattutto da parte di noi credenti, che “Insieme a Lui ce la faremo!”: ecco la forza rinnovatrice della Pasqua, che non consiste in un colpo di bacchetta magica, ma nel bisogno più che necessario di avere Lui come compagno dei nostri passi, guida delle nostre decisioni e meta del nostro futuro.
don Mauro